Grigore Arbore Popescu
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Grigore Arbore Popescu
La tensione della contemplazione
Nel nome della modernità sono state proposte al pubblico negli ultimi decenni come campioni rappresentativi, per possibili direzioni dell’evoluzione dell’arte, innumerevoli produzioni d’atelier prive della capacità di condensazione di uno sforzo creativo rapportabile ad una seria riflessione sugli obiettivi della comunicazione. Il loro valore artistico è stato spesso confuso con l’immagine innovatrice loro attribuita da una buona parte della critica, specialmente di quella parte che tende ancora a proiettare nella creatività, come in uno specchio, il proprio narcisismo.
L’invasione di novità nel nome della modernizzazione ha riempito le gallerie e talvolta anche le case e le istituzioni pubbliche con oggetti inutili e la forza di suggestione o la capacità di evocarli è stata delegata alle interpretazioni dei galleristi oppure agli snobs in servizio permanente presso le „istituzioni dello spettacolo quotidiano”. Chi scrive non è un avversario della modernità ma solo un avversario degli abusi che nel nome di essa si commettono invocando il sacro principio della libertà di espressione, che nelle sue estreme manifestazioni propone il vuoto pneumatico come essenza, archetipo del percorso artistico. La salvezza dell’arte dal pericolo della dissoluzione non può aver luogo che soltanto approfondendo la riflessione sugli obiettivi della comunicazione attraverso l’immagine nelle condizioni dell’attuale evoluzione tecnologica. Il rapporto della comunicazione con la vita fa sì che sia impossibile per gli artisti responsabili ogni transazione con gli obiettivi programmati o non programmati della disumanizzazione dell’espressione.
Nella storia recente della pittura sono state poste spesso al posto di onore, con il concorso dei galleristi scaltri e dei critici compiacenti opere di scarsa o disarticolata capacità comunicativa. Ciò non è accaduto nella storia delle interpretazioni musicali, dove nessuno ha provato, almeno fino adesso, di proporre come punto di riferimento il concerto di una emittente di suoni disarticolati. Il fatto che gli obiettivi consolidati della comunicazione umana non sono cambiati in modo essenziale e che solo la tecnica della comunicazione evolve è un motivo di riflessione per molti artisti che si pongono in modo onesto il problema della finalità dell’intervento artistico senza assolutizzarne i mezzi. Doina Botez fa parte di questa categoria. Si è formata, d’altronde, in un ambiente culturale e artistico dove il culto della forma non era ancora alterato dal culto della formalizzazione. In altre parole la sua arte ha le origini non nel rifiuto dell’espressione eloquente, ma nella ricerca dell’adeguatezza di questa in un contenuto. In questo modo si può capire una gamma di stati d’animo, intensamente vissuti, quali chiedono imperativamente una certa veste grafica e coloristica.
Nella sua fase iniziale la pittura di Doina Botez è stata un grido trattenuto, un’esclamazione di piacere o dolore davanti allo spettacolo quotidiano dell’esistenza. Mi ricordo molto bene i suoi dipinti della fine degli anni ’70: erano una parte addolorata di una città addolorata; erano però anche una parte nobile e sorridente di un paese oscurato. Un’ombra leggermente minacciosa ha galleggiato già da allora sugli orizzonti non molto larghi delle tele dell’artista.
Se dovessimo seguire i canoni delle classificazioni stilistiche definiremmo la pittura di Doina Botez come una pittura di matrice espressionista. Senza dubbio l’artista ha sintonizzato l’udito alle impalpabili e non udibili grida dei quadri di Munch. Ha addolcito però la loro tensione filtrandole attraverso le gamme coloristiche di Baba e Ciucurencu, in una bizzarra originale combinazione, piena di vivacità. Il suo espressionismo sarebbe quindi temperato da una inclinazione verso la contemplazione che fa sì che le immagini artistiche abbiano quasi il carattere di radiografie colorate di certi stati dello spirito proiettate al’esterno, nella gente e nel paesaggio. Afe ineffabili contribuiscono talvolta a stemperare le tensioni latenti suggerite dalla spigolosità dei paesaggi o delle figure umane. I contorni si coagulano in forme chiaramente definite soltanto quando la luce solare si impone, quando la memoria ha dei riferimenti precisi, quando l’orizzonte si schiarisce. Questa oscillazione di Doina Botez tra nebuloso e chiarore, tra dinamicità e movimento congelato, mi sembra essere la testimonianza di una ricerca che ha per scopo non il perfezionamento tecnico del mezzo pittorico di comunicazione, ma l’identificazione dell’inquadratura psicologica della comunicazione e la sua materializzazione in un’immagine con attributi suggestivi.
Ci troviamo senza dubbio nei confini della comunicazione artistica di qualità, della comunicazione impregnata di significati e umanità.
Venezia, 1998