Giorgio Di Genova
Giorgio Di Genova
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Giorgio Di Genova – Atripalda, 2.12.2000
Doina Botez arriva in baccanale per la strada maestra del carnevale, perché precedentemente dipingeva il carnevale. Ha un significato, questo, vedremo… Tanto non è che siano due diverse espressioni il carnevale e il baccanale, sono due facce della stessa medaglia: una religiosa il carnevale, l’altra pagana, ma hanno tutte e due origine dall’inconscio collettivo della natura umana. E dimostra in questo caso che sono due momenti gemellari per cui l’aver cominciato intorno al ‘96 -‘97 a dipingere il baccanale è stata una consequenzialità non di poco conto, anzi del passaggio da una situazione più contemporanea come il carnevale, ancora si festeggia, l’altro ce lo hanno tramandato le storie mitologiche. E quindi ha due significati diversi, nell’ambito di una temporalità diversa, però attingono alla stessa matrice.
A guardare il mondo pittorico della Botez ci si avvedrà che ella non guarda al vero, alla realtà vera, quella che ci sta davanti tutti i giorni, ma piuttosto cerca di individuare una realtà interiore che per lei, come per tutti gli artisti, è più vera del vero che si vede. Per gli artisti, per i pittori la verità vera non è quella che si vede, non è quella che salta all’occhio, per dirla con un termine che ho usato spesso per la pittura informale, che ha usato spesso Wols, noto pittore informale oppure, spesso usato in riferimento alla pittura formale, ma è quella che viene da dentro, è quella che si proietta dall’interno verso l’esterno per poi concretizzare un’ amalgama che determina un linguaggio. Vedremo che poi tutta l’arte è sempre un linguaggio ma che appunto distingue l’artista dagli altri. Perché se l’occhio fosse un senso veritiero esatto, tutti gli artisti dovrebbero dipingere quando fanno un’opera la stessa cosa, cioè dipingono un ritratto, tutti i ritratti dovrebbero essere uguali, invece no, sappiamo che ogni artista ci mette del suo ed è quello che porta a far sì che un’opera diventa arte anziché una copia.
La Botez quindi non attinge al suo richiamo. Chissà se forse in questo suo recepire soprattutto gli stimoli e le pulsioni dell’Io profondo non ci sia un’obiezione sottile a quella che era una condizione dominante nel suo Paese quando appunto era ancora nell’ambito dei paesi socialisti. Voi sapete che c’è stata una grande diatriba tra l’occidente e i paesi socialisti sul piano proprio della concezione dell’arte. I paesi socialisti hanno sempre visto l’arte come un impegno sociale per poter indottrinare e per poter esaltare o celebrare certe situazioni: che è un fatto didattico, non didascalico, non di per sé artistico, perché, come vedremo, non è il “che cosa” si dice dell’opera ma il “come” si dice. Il realismo socialista invece ha sempre tentato di privilegiare la verità ottica a quella che era la verità espressiva per cui l’astrattismo è stato anche perseguitato, lo sappiamo benissimo, gli artisti sono stati impediti ad esprimere il loro modo di esporre…
La pittura, appunto, celebrativa dominante viene proprio forse dalla Botez all’interno messa in crisi, perlomeno dal suo modo di vedere, quindi è una sorta di obiezione, la sua, di non aderire a questo criterio. Ed è una sorta di sua licenza. Il carnevale è un periodo di licenza nelle regole della vita, lo sappiamo, a carnevale “ogni scherzo vale”, si impazza, si fanno delle insinuazioni abnormi, poi si deve ritornare, dalla Quaresima in poi, alla normalità. La Botez la sua licenza se l’è presa nella pittura, dipingendo il carnevale e dipingendo in una maniera diversa da quella che era appunto l’indicazione del suo Paese nei confronti appunto del realismo socialista. Si è presa delle libertà espressive accentuando certe deformazioni e prendendosi anche qualche licenza sul piano della rivisitazione di altre tappe del passato, come il barocco. Chi ha visto la mostra avrà trovato degli elementi baroccheggianti, naturalmente rivissuti con lo spirito d’oggi. Perché l’anima antica su cui la Botez ha proceduto è in realtà stata da lei messa, rimpolpata, ha fatto un corpo su di essa piuttosto moderno rispetto a quelle che erano le situazioni nel suo Paese.
Poi nell’84 la Botez ha vinto una borsa di studio, è venuta in Italia. L’Italia sappiamo è stata la patria della cultura figurativa fin dai tempi del Grand Tour dal Settecento all’Ottocento: finché Delacroix poi non ha rotto questa tradizione andandosene a Tunisi, nei paesi africani, proprio quindi in obiezione a quello che era lo spirito classico, classicheggiante .
È venuta in Italia e ha avuto naturalmente un aiuto fondamentale per la sua maturazione. L’impatto con l’Italia è stato quello che poi evidentemente l’ha convinta a stabilirsi. Dal ’89 stabilmente sta a Roma, si è fermata in Italia perché a Roma, in Italia, ha trovato l’ossigeno per i suoi polmoni della sua pittura. Il suo modo di fare si è cosi inserito nell’ambito della realtà contemporanea pittorica, tanto che quando alcuni anni fa me l’hanno presentata ed io subito l’ho invitata al Premio Sulmona nel ’98. Era già impegnata a realizzare questa sua rivisitazione del baccanale, del rapporto, perché poi c’è un fatto psicologico di fondo: la Botez parla dell’uomo, della doppiezza dell’uomo parlando del baccanale come prima aveva parlato del carnevale. Guardate i temi che lei adopera: c’è sempre la maschera, il carnevale, è chiaro, tutti pensano che la maschera serve per celare, per nascondere le vere sembianze. Non è assolutamente vero, la maschera viene scelta dall’ l’individuo per svelare le vere sembianze che sono dentro e che non si ha il coraggio di svelare nella vita quotidiana. La doppiezza dell’uomo è proprio in questo. E la Botez lavora su questo.
Ora è chiaro che fare una mostra della Botez in un’azienda vinicola come quella del Mastroberardino mi sembra che sia il non plus ultra, parla del vino… quello che mi ha molto sorpreso e divertito è l’allestimento di questa mostra: i quadri sono stati messi sulle botti. Quale luogo migliore mettere i quadri che parlano di Bacco e del vino se non sulle botti? E’ anche questa una trovata che va sottolineata perché molto spesso, proprio negli allestimenti delle mostre, non si adoperano delle situazioni significative come in questo caso.
Andiamo a vedere come lei si esprime perché qui abbiamo di fronte due modi di esprimersi di una pittrice: il quadro da cavalletto, alcune tecniche miste e alcune incisioni e disegni e, dall’altra parte una cupola. Se avete notato quella pittura succosa che sta nei quadri, la pittura che la Botez fa anche con la spatola, quindi diventa materica, dagli alti spessori, non è ripetuta nella cupola perché bisogna rispondere alle esigenze dell’uomo e della dimensione e della sistemazione. Gli artisti percepiscono molto bene che l’opera va assecondata secondo la collocazione. Un quadro si può mettere su una parete e quindi deve avere una sua pregnanza; il quadro è un francobollo di una realtà, una cupola, invece, ha le sue esigenze sia spaziali, sia visive, sia anche fruitive. Se avesse messo dei grumi di colore fatti con la spatola sulla cupola, questo avrebbe dato fastidio per le ombre che avrebbero determinato. Quindi abbiamo di fronte a noi da una parte i flashes di una sua immaginazione e nella cupola, invece, abbiamo un discorso, un racconto che è mitologico e al tempo stesso personale. Perché ogni artista quando dipinge non fa altro che parlare di se stesso, sia quando si fa l’autoritratto, sia quando dipinge altre cose. Ci sono dei pittori che si sono fatti tanti autoritratti. Pensate a Rembrandt: se n’è fatti da quando era giovane fino a quando era anziano. Perche tutti gli artisti sono dei narcisisti. Se non fossero narcisisti non farebbero gli artisti, farebbero un’altra cosa. Gli artisti sono megalomani, ma è giusto che siano megalomani. E quindi in questo caso, l’artista parla sempre di se stesso, quindi quando voi guardate le opere della Botez vedete lei, lei naturalmente in una forma di autoritratto che è simbolico – psicologico, non è reale, ha delle sfumature che vanno poi colte. Naturalmente questa è una piccola fase, piccolo brano del suo racconto che dura da anni e durerà tutta la vita. L’artista tende a ricostruire tessera per tessera, quadro per quadro, opera per opera, una sorta di autoritratto simbolico – psicologico che alla fine, quando se ne sarà andato.sopravvive. Tutta la vicenda, l’aspirazione di ogni artista è quella di sconfiggere la morte…. Questa è la volontà, il desiderio inconscio di ogni artista. Si danno da fare perche vogliono rimanere, vogliono esistere, vogliono che di ciò che fanno su questa terra, nella loro vita transeunta resti qualche cosa: è stato qui, ha fatto questo e ci ha lasciato il suo autoritratto psicologico – simbolico.
Ebbene la Botez, come io sempre dico, è una di quelle artiste che spiega molto bene che l’artista, vita natural durante, mutatis mutandis, non fa che dipingere sempre la stessa opera. Notate, sono piccoli dettagli, però sempre lei, ma se non fosse così un artista non lo si riconoscerebbe a distanza. Lo stile è ciò che si riconosce. La Botez anche nella sua cupola è diversa come struttura dai quadri perché lì, nella cupola, aveva esigenze diverse, ci doveva essere un racconto, ci doveva essere un movimento. La concavità del supporto e della superficie le ha creato nuovi stimoli. Se guardate bene c’è un racconto che è spiralico: nasce dal centro, si divaga, va a finire ai bordi circolari e poi ha quattro peduncoli, quattro vele. Ha voluto dipanare un racconto, e non è voluta andare a raccontare quello che è il mito di Dioniso – Bacco, cioè non è voluta riandare alle origini della civiltà – perché Dioniso e Bacco ci riguardano, come sappiamo dagli studi antropologici e mitologici – ha voluto invece andare a raccontare gli elementi che lo contraddistinguono. Allora ci sono le baccanti, ci sono i satiri e i fauni, c’è il caprone Bacco con Arianna e ci sono altre situazioni naturalmente soprattutto legate al vino, ai boccali, ai grappoli d’uva, ecc. Ma in questo, la Botez ha espresso di nuovo quel sentimento di doppiezza delle maschere, anche quando non ci sono le maschere. Guardate la Arianna nel riquadro di Bacco e Arianna: è deforme, cioè la maschera si incorpora nel viso perché naturalmente esprime se stessa in questo stato di ebbrezza e di libertà orgiastico come appunto erano i baccanali. La Botez ha interpretato molto bene questo con una sensualità che è molto diversa da quella che altri artisti invece hanno messo nei loro quadri… La Botez ha una sua integrità di visione, di concezione, ha un Weltanschauung che la porta all’ebbrezza, all’abbandono, che si esprime anche nei colori. Guadate i colori che lei adopera: i rossi, i verdi, tutti cantano, anzi, più che cantano urlano molto spesso perché, certo, il rosso poi è collegato col vino, collegato col sangue, collegato col sole. Infatti, in una delle vele – se vedete le quattro vele – in una c’è un viticcio, nelle altre tre ci sono dei fauni o satiri. Due hanno dietro i viticci, uno no. Uno ha dietro uno sfondo con un sole rosso, un grande cerchio, che poi è un pochino il simbolo di tutta la cupola, circolarità del sole – circolarità della cupola, piena di luminosità questa cupola.
Mi sono soffermato su questi elementi compositivi dell’opera proprio, come dicevo all’inizio, perche l’arte è un linguaggio e il linguaggio ha le sue regole, come la poesia. La poesia non è che non si esprime secondo certe regole, certe possibilità. La prosa è una cosa, la poesia è un’altra. Così qualsiasi altro elemento espressivo ha le sue regole, e le regole, se vogliamo vedere, ve ne indico una: guardate proprio il dettaglio di Bacco – caprone e Arianna, guardate le braccia, sono tutti pesi e contrappesi. Cioè la composizione è studiata in modo che un peso venga equilibrato da un altro peso. Questo è un modo che tutti gli artisti hanno senza magari a volte pensarci, ce l’hanno dentro… Se voi andate a vedere appunto questi elementi vedrete che quello che conta non è il “che cosa” viene detto, non è il soggetto ma il “come”! Sempre l’arte viene fatta dal come! Cioè l’arte è lo specifico linguistico che determina una situazione diversa da quella che è la normalità.
Frammenti della presentazione del Prof. Giorgio Di Genova in occasione dei vernissage della cupola “Nozze di Arianna” e della mostra personale di Doina Botez presso gli stabilimenti d’invecchiamento ed affinamento della casa vinicola Mastroberardino, Atripalda, 2.12.2000