Ugo Moretti
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Ugo Moretti
Doina è venuta da lontano, dalle foreste cupe e dure dei Carpazi, ha traversato il „bel Danubio blu”, percorrendo all’indietro l’itinerario che i suoi lontani progenitori hanno tracciato al seguito del magnifico Traiano, sospinta da un ancestrale richiamo. Un irresistibile impulso l’ha condotta a Roma dove, con illuminazione metafisica, ha riconosciuto le sue origini, ha sentito l’odore delle sue radici: s’è guardata allo specchio di rame del Campidoglio e ha visto nell’immagine riflessa la fisionomia sognante di Agrippina, severa e al tempo stesso avventurosa. Saltando secoli, con irruenta impazienza, Doina si è fermata al secolo sublime della cultura e dell’arte e dell’intelligenza dell’umanità. Dal recupero dell’identità romana, Doina rumena, ha acquisito una dimensione universale.
Dal barocco all’informale, dal cromatismo all’espressione, dall’espressionismo al liberty, Doina si è caricata di energie e di suggerimenti. E sopratutto di entusiasmo, di amore riconquistato per la sua patria spirituale, il sogno impossibile che è diventato realtà: Roma.
La Roma barocca di Doina è esuberante di colori e di travolgimenti: azzurri e gialli solari, rossi porpora, verdi smeraldino, ombre che si dilaniano in squarci di candore abbagliante, ocra morbida come la sabbia, guizzi repentini di cobalto e – protagonista – la figura. Netta e autoritaria, danzante o in fuga, abbandonata e pronta alla battaglia, la figura di Doina è la proiezione di un autoritratto. E’ sempre lei, in finzioni e mascheramenti, che si veste e si spoglia in un putiferio di stoffe, di paramenti, di stracci e di drappi. Combina figure confuse e al tempo stesso concrete. E’ un balletto dove i movimenti sono stabiliti da un rigoroso coreografo e vengono scompigliati perché un vento sul palcoscenico ha fatto volare via i fogli dello spartito. E’ un baccanale di colori che si scatena intorno alle figure di Doina, cioè intorno a sé stessa.
Corrono e ballano ubriachi di gioia i colori di Doina: la purezza dei loro toni intatti e spessi danno l’idea della forza del colore, come forma e sostanza. Non c’è indecisione nel gesto di Doina, quando impugna il pennello e lavora con la spatola come uno scultore; spande l’argilla a complessi ondosi d’impasti.
A seconda della luce e l’angolazione, i dipinti di Doina cambiano natura: con la luce fredda dei neon, assumono la fulminea improvvisazione dei fuochi artificiali e rimangono impressi nella memoria visiva come nella notte di San Giovanni. Visti al chiarore del sole al mattino, nel suo studio alto, sulle terrazze della borgata Trionfale sembra di assistere alla esplosione tropicale di una giungla dai fiori sconosciuti ai botanici e che allietano festosamente i giorni delle stagioni dell’amore: al di là dei quadri, percepisci i battiti, i ruggiti, i lamenti languidi delle belve in calore, e lo stesso languore lo scopri negli occhi delle donne di Doina, cioè nei suoi occhi, luccicanti di rabbia e di mistica.
Perché un artista deve avere come patrimonio esistenziale la rabbia e il misticismo. Altrimenti è un artigiano operoso, che ha dalla sua l’abilità e il calcolo. Grazie a Dio, Doina è un artista.
Roma, giugno 1990